Hitler e il fascino del male


 

A più di 77 anni dalla sua morte la figura di Hitler incombe ancora nell’immaginario collettivo come quella di un mostro che ha rischiato di distruggere molti popoli: quello che risaliva a comuni origini ebraiche in primis, ma anche quello russo, le popolazioni di origine africana, e infine lo stesso popolo tedesco. Percepiamo la sua ascesa al potere come una contaminazione “demoniaca” dell’umanità: e tale percezione è così forte da far sbiadire i contorni storici della vicenda, appiattiti nella facile opposizione tra un bene assoluto e un male totale. 

Perché Hitler è così importante, nella nostra idea di male e carisma nella storia? In un articolo del 2011, lo storico Román Gubern ha sottolineato che “quello che ci attrae di lui è, in ultima istanza, il fascino del male, intravedere cosa c’è dietro la maschera”: il male, insomma, come possibilità sempre presente nella natura umana. Hitler diventa dunque incarnazione del male per antonomasia.

Proprio per comprendere quanto l’idea di “malvagio carismatico” influenzi tuttora la percezione delle vicende della Seconda Guerra Mondiale, è utile inquadrare brevemente la situazione socio-politica della Germania, al momento della presa di potere di Hitler.


Le condizioni per la presa di potere di Hitler


L’Europa del primo dopoguerra era stata percorsa da una grave crisi economica, che si abbatteva su popolazioni già stremate dal conflitto portando disoccupazione e miseria. La prima guerra mondiale aveva avuto un costo spaventoso o in termini di vite umane: 1.800.000 Tedeschi, 1.700.000 Russi, 1.600.000 Francesi, 1.100.000 Austriaci, 761.000 Inglesi, 600.000 Italiani erano morti nei campi di battaglia e nelle trincee. 

A partire dal marzo del 1918, inoltre, si era abbattuta sul mondo intero la terribile febbre “Spagnola”, che mietè 50 milioni di vittime nel mondo.


In seguito alla sconfitta nella Grande Guerra e alla punitiva Pace di Versailles (1919), in Germania era stata proclamata una repubblica democratica, parlamentare e federale, chiamata Repubblica di Weimar dalla nuova capitale. Tra tutti i paesi europei, quello che scontava la situazione più critica era proprio la Germania: grave miseria diffusa, pesantissima inflazione e tassi spaventosi di disoccupazione stavano portando la popolazione sull’orlo della disperazione. 


INFLAZIONE IN GERMANIA DAL 1921 AL 1923

Periodo

Marchi tedeschi per un dollaro statunitense

1921

65

1922

2420

giugno 1923

100.000

luglio 1923

350.000

agosto 1923

4.600.000

settembre 1923

100.000.000

ottobre 1923

25.000.000.000

novembre 1923

4.200.000.000.000


In una simile catastrofe economica presero piede numerosi piccoli partiti politici, come il Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (1920) di Hitler, che promettevano di far scomparire la miseria; tuttavia, per i primi anni, queste formazioni politiche ottennero risultati assolutamente modesti



Nel 1929, dopo 5 anni finalmente più sereni per la Germania e per i tedeschi, con il famoso "Venerdì nero di Wall Street” iniziò una lunga e profonda crisi economica mondiale. La nuova ondata di malessere spinse al successo il Partito Nazista: in effetti, la maggioranza dei 17 milioni di tedeschi che votarono Hitler nel 1933 non era mossa dalla sua ideologia antisemita, razzista e nazionalista, bensì dalla richiesta esausta di un lavoro, di sicurezza politica e di una garanzia di un modesto benessere.

Più aumentava il consenso elettorale, inoltre, più i grandi industriali, che prima avevano visto in Hitler solo un fenomeno politico esotico, eccentrico e volgare, si interessavano a lui.

Quando, nel gennaio del 1933 Hitler diventò Cancelliere, in Germania si contavano 6 milioni di disoccupati. Dopo solo 4 anni, nel 1937, i disoccupati erano quasi del tutto spariti, mentre i prezzi e i salari erano rimasti stabili, senza un'ombra di inflazione.



Questo "miracolo economico", che sembrava l'argomento più forte a favore di Hitler, era fondato su di un sistema in realtà tarato. Lo caratterizzavano tre fattori:

- una quasi totale autarchia economica del Reich;

- un massiccio incremento della produzione militare (che nel '38 arriva al 25% dell'intera produzione industriale);

- un indebitamento dello stato senza precedenti (tra il 1933 e il 39 il debito pubblico quadruplica).



Senza nessuna dichiarazione esplicita la Germania si stava risollevando sulla base di una scommessa: ci sarebbe stata una nuova Guerra Mondiale, in cui avrebbero ottenuto la vittoria.


Questo il quadro politico ed economico in cui si verificò l’ascesa di Hitler. Tuttavia resta una domanda: come fu possibile che un outsider per nascita, educazione, istruzione e livello sociale abbia potuto riscuotere un successo tanto grandioso?


Una via per la risposta può essere la nozione weberiana di “potere carismatico”: tale potere si basa sulla percezione, da parte di un gruppo di fedelissimi seguaci, che un leader, grazie alle sue eccezionali doti di eroismo e grandezza, incarni una missione, utopica, vaga e perciò non contrastabile. Per questo, nonostante per lungo tempo Hitler si fosse fatto portavoce soltanto di una serie di fobie ideologiche - tra l’altro per nulla originali (si veda il celebre affaire Dreyfus)-, tramite il suo eccezionale talento demagogico e la capacità di evocare gli istinti più bassi delle masse in breve tempo assurse al ruolo di capo politico e spirituale.

A prova di questo, possiamo citare le parole di Albert Speer, ex ministro delle Armi e delle Munizioni: “Hitler era una figura demoniaca la cui personalità aveva determinato il destino di una nazione”. 

In effetti, il sistema di governo promosso da Hitler era in completa rottura con quelli precedenti, perché poneva al centro il concetto di esercizio e responsabilità personale del potere.

 

 

 

I metodi di Hitler per conquistare le masse


Lo scienziato Klaus Heyne, durante una recente conferenza, ha dichiarato che la prima vera arma di Hitler è stato il microfono.

Certamente una tale affermazione mira a suscitare scalpore più che a un’aderenza storica ai fatti; tuttavia coglie pienamente l’aspetto originale della propaganda e della comunicazione di Hitler. Il microfono consentiva al leader nazista di attrarre efficacemente, con la voce e con i gesti, i suoi ascoltatori. Un accurato utilizzo delle tecniche di manipolazione emotiva delle masse (adoperare immagini forti con un lessico semplice e una sintassi diretta e asciutta) fu un ingrediente essenziale alla sua ascesa. 

Già dalla fine degli anni ‘20 il partito nazista aveva strutturato un’accurata campagna di propaganda, volta a diffondere l’immagine di Hitler come leader irresistibile e carismatico. Un sistema attentamente orchestrato di materiali visivi (locandine, manifesti, abiti), di simboli, di discorsi in pubblico e alla radio, di apparizioni di fronte a grandi masse permise la creazione di un culto del capo: Hitler incarnava talora la figura del militare pronto al combattimento, talora quella del “buon padre di famiglia”, qualche volta addirittura quella di “messia” venuto a salvare i tedeschi e la Germania.

Dalla sua vittoria alle elezioni del 1932, questa immagine si concretizzò in due direzioni: da un lato il Führer, interprete e guida dei destini nazionali, dall’altro l’uomo in contatto con il popolo, devoto alla patria fino alla cancellazione di sé. Goebbels e gli altri responsabili della propaganda nazista diffusero capillarmente manifesti, ritratti e statue del Führer, insieme alla distribuzione in ogni casa di copie del Mein Kampf (anche in Braille!).

Ben presto ad una tale martellante ma passiva fruizione della figura di Hitler si aggiunse l’obbligo di pratiche attive di venerazione tramite rituali come le marce, il saluto nazista o la formula “Heil Hitler!”: chi avesse rifiutato di aderire a tali riti rischiava la detenzione.


Hitler, in quest’ottica, diventa allora emanazione di un fantomatico “spirito tedesco”: tramite il suo carisma e la sua eccezionale presa demagogica elimina ogni mediazione democratica tra il Popolo e il Capo, dichiarandosi come magnetico portavoce della Germania in toto.


In che modo Hitler mantiene il potere


Nel capitolo 7 del Principe Machiavelli mette in guardia coloro che si sono improvvisamente impadroniti del potere perché “sappino subito prepararsi a conservarlo”, che è la cosa più difficile. Diventa dunque importante capire come Hitler sia riuscito a governare da solo per dodici anni. Kershaw sostiene che molto fosse dovuto alla sua sempre potente capacità oratoria: “Ciò che diceva non era originale, ma il suo modo di dirlo era unico. Riusciva a colpire emotivamente il suo uditorio con una forza senza precedenti, esaltandolo, eccitandolo e commuovendolo con la sua retorica della rinascita nazionale; nessun altro uomo politico poté stargli alla pari, anche quando propagava un messaggio simile al suo”.

E’ proprio sfruttando gli entusiasmi degli uomini comuni, ispirando le loro azioni senza bisogno di ordini espliciti e quindi radicalizzandoli ancora di più, che Hitler legittima la propria ascesa: la sua leadership carismatica attrae magneticamente anche chi era critico verso il partito nazista. Moltissimi tedeschi lo credevano infatti completamente generoso, incorrotto, dedito al benessere comune; pensavano che fosse in grado di raddrizzare qualunque torto, compresi quelli commessi dai suoi luogotenenti, non appena ne fosse venuto a conoscenza; nutrendosi di questo mito, i tedeschi trovavano insomma una compensazione per le frustrazioni e le ansietà della vita quotidiana. 

Che fosse enormemente interessato alla diffusione capillare della sua immagine in questo senso, ce lo dimostra anche un suo discorso del 28 aprile 1939:

“Ho superato il caos in Germania, ristabilito l'ordine, aumentato potentemente la produzione in tutti i settori della nostra economia nazionale (...) sono riuscito a riportare completamente alla produzione utile i sette milioni di disoccupati che erano così cari a tutti i nostri cuori; a far restare il contadino tedesco sulla sua terra, nonostante tutte le difficoltà; a raggiungere il rinnovato fiorire del commercio tedesco e a promuovere enormemente i trasporti. Non solo ho unito politicamente il popolo tedesco, ma l'ho anche riarmato militarmente, e ho tentato di strappare pagina per pagina quel Trattato [n.d.r. di Versailles], che conteneva nei suoi 448 articoli le più vili violazioni mai accordate alle nazioni e agli esseri umani. Ho restituito al Reich le province che ci erano state sottratte nel 1919. Ho ricondotto in patria i milioni di tedeschi profondamente infelici che ci erano stati strappati. Ho ricreato l'unità storica millenaria dello spazio vitale tedesco, e ho cercato di fare tutto questo senza versare sangue e senza infliggere al mio popolo o ad altri le sofferenze della guerra. Ci sono riuscito con le mie sole forze, come uno che ventuno anni fa era un lavoratore sconosciuto e un soldato del mio popolo”.


A completare il suo “santino”, la propaganda hitleriana metteva anche in luce le abitudini ripetitive ma originali del leader: era astemio, vegetariano, non fumava, non beveva caffè; maniaco del pulito, era affettuoso con gli animali e garbato con le donne.

Oltre a questa santificazione personale, si era diffusa anche la concezione che Hitler fosse l’unico artefice del miracolo economico; che rispettasse le ancestrali tradizioni tedesche; che fosse un eccelso difensore degli interessi della Germania all’estero e un baluardo contro i nemici ideologici della nazione, il marxismo-bolscevismo e il giudaismo.

Tutto questo fu certamente reso possibile anche dal carattere istrionico, divertente e affascinante delle performance pubbliche di Hitler, che riuscivano a incantare gli spettatori, forgiando profondi legami emotivi e psicologici con loro. Sapientemente modulati, i suoi discorsi al pubblico riuscivano a dare comunque impressione di schiettezza e spontaneità, di sincero interesse verso i propri seguaci; in realtà sappiamo come Hitler nutrisse uno scarso interesse per chi non gli era immediatamente utile.

Da un punto di vista amministrativo, ad esempio, aborriva ogni procedura burocratica, ogni lamentela settoriale, contro cui faceva valere un fantomatico ideale di unità nazionale tramite i plebisciti. Questo strumento di consultazione nelle sue mani diventava un ulteriore elemento di conquista del potere, che sostituiva le spinte democratiche con un energico centralismo autoritario.

Altro strumento centripeto fu, certamente, il terrore suscitato da S.A. e da S.S.: tuttavia tale terrore era tutt’altro che generalizzato. Hitler e il partito nazista evitavano con cura di inimicarsi la Chiesa, i banchieri, gli industriali, i grandi proprietari terrieri. No, il terrore era riservato a chi non risultava preoccupante: i diversi, i devianti, gli oppositori, gli emarginati, i fragili. E contro di loro si scagliava lo zelo fanatico di Hitler, che propugnava la concezione della storia come lotta fra razze, la necessità dell’antisemitismo, la pretesa di uno spazio-vitale (lebensraum) per la Germania, il bisogno di uno scontro definitivo con l’Unione Sovietica. 



Il (doppio) mito di Hitler


Le pur succinte indicazioni dei precedenti paragrafi tentano di individuare come si sia costruito il “mito di Hitler” negli anni ‘20 e ‘30. In patria, infatti, molto presto vengono fatte circolare affermazioni che lo glorificano, come quella di Georg Schott, che nel suo “Il libro del popolo di Hitler” (1924) aveva scritto “il segreto della sua personalità consiste nel fatto che ciò che è assopito nel profondo dell’animo tedesco ha preso fattezze umane [...]. Questo appare in Adolf Hitler : egli è l’incarnazione de desideri profondi della nazione”; o come l’osservazione dell’insegnante amburghese Louis Solmitz, che nel 1932 commentò “molti sono coloro che lo vedono [Hitler] come un modello, con una fede quasi commovente nelle sue doti di protettore, di salvatore, di colui che li libererà dalla loro disperazione”.

Ma è dalla prima metà degli anni ‘30 che il partito nazista decide di impegnarsi nel finanziamento di film propagandistici: del 1935 è il documentario “Il trionfo della volontà” di Leni Riefenstahl, mentre nel 1938 esce il film “Olympia”, con le riprese dei giochi olimpici di Berlino.

Fuori di Germania, invece, Hitler è spesso caratterizzato come un pazzo criminale meritevole di derisione, come ne “Il testamento del dottor Mabuse”(1933) di Fritz Lang, in “Il grande dittatore” (1940) di Chaplin e in “La resistibile ascesa di Arturo Ui” (1941) di Bertolt Brecht. Questo secondo filone prosegue ancora oggi: sia nei film tragici (Schindler’s List, La vita è bella, La caduta)  che nelle commedie (Indiana Jones e l’ultima crociata, i nazisti dell’Illinois in “The Blues Brothers”) Hitler e i nazisti sono sempre presentati come mostruosamente diversi dagli uomini comuni.


In realtà questi due opposti modi di trattare un soggetto rivelano uno stesso bias di fondo: in senso sublime o infero, Hitler viene comunque considerato qualcosa di fuori dall’umano; qualcuno che, dotato di un carisma soprannaturale, non può essere interpretato con gli strumenti con cui leggiamo la realtà che ci circonda. E questo carattere profondamente disturbante rimane ancora vivo, a quasi 80 anni di distanza, vivissimo: di Hitler parlano psichiatri, sociologi, storici e antropologi.  Di Hitler parlano i Simpson, i Griffin, South Park, Dragon Ball Z e Fullmetal Alchemist.

Il motivo di questa sopravvivenza del mito? Probabilmente, come accennato sopra, la consapevolezza del rischio (e forse l’oscura tentazione) di dover affrontare anche noi un simile ipnotico carisma totalitario.




 

Bibliografia/ sitografia



Kershaw, Ian, “The Hitler Myth”. Image and Reality in the Third Reich, Oxford University Press, 1987

Kershaw, Ian, “L’enigma del consenso”, Laterza 2001

https://www.testimonianzeonline.com/2015/11/il-consenso-politico-nel-terzo-reich/

https://www.lasinistraquotidiana.it/hitler-e-lenigma-del-consenso/

https://4books.com/it/magazine/hitler-e-lenigma-del-consenso-un-libro-in-3-minuti

https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/making-a-leader

https://elpais.com/diario/2011/07/24/eps/1311488815_850215.html


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