La malvagità di Grindelwald è tanto proverbiale, all’interno del mondo magico inglese, da non suscitare nemmeno più curiosità. Mai che Harry, ad esempio, si interessi alla sua figura, alle sue imprese, al pur celeberrimo scontro con Silente prima di “Harry Potter e i Doni della morte".
Per gran parte della saga, a conti fatti, si parla di lui come di un nemico sconfitto, capace una volta di grande carisma e di atroci efferatezze, ma ormai escisso dalle vicende umane, tanto da non suscitare più il timore degli altri maghi: viene nominato anzi con noncuranza nella famosa figurina delle cioccorane n. 101. Come spiegare questa sua fama diffusa, e insieme l’idea che, in fondo, non valga la pena soffermarsi su di lui? Ci sono alcune possibili risposte: la lunga prigionia a Nurmengard; il suo scarso interesse per la Gran Bretagna; l’affacciarsi di un nuovo e temibile nemico con Voldemort.
Sicuramente questi tra aspetti concorrono a rendere il problema Grindelwald poco pressante, per un mago della generazione di Harry Potter. Tuttavia, dato il suo eccezionale carisma e i quarant’anni della sua attività come principale mago oscuro, credo che la risposta sia un’altra.
Ma andiamo per ordine.
E’ nell’ultimo volume della saga principale che cominciamo a conoscere Gellert, attraverso tre voci che ci guidano alla sua scoperta: quella di Victor Krum da un lato, e quella di Silente e di Rita Skeeter, per una volta eccezionalmente convergenti, dall’altro.
Della sua vita precedente all’incontro con Albus Silente sappiamo pochissimo: Grindelwald era molto probabilmente un Purosangue, bisnipote della storica della magia Bathilda Bath; brillante studente di Durmstrang, a causa dei suoi attacchi aggressivi contro altri studenti venne espulso nel 1899, all’età di sedici anni (risulta così di un anno più piccolo di Albus - particolare significativo, se si considera l’ascendente che aveva su di lui).
Sembra dunque ovvio che Gellert, per quanto fascinoso, non padroneggiasse ancora completamente la capacità di attrarre le masse, o almeno non abbastanza, da non scontrarsi con le pur lasse regole di Durmstrang sulle Arti Oscure e i duelli.
Tuttavia il suo carattere allegro e affascinante colpisce i suoi interlocutori in maniera quasi irresistibile: non solo Albus, ma anche la prozia Bathilda - che da storica della magia inserita a pieno titolo nel sistema scolastico aveva tutti gli strumenti per capire quanto potesse essere pericoloso il nipotino - restano catturati dalla fiamma delle sue idee (1).
In quale modo poteva dunque incantare, pur così giovane, persone di grande esperienza e acuto discernimento? Mi do questa risposta: perché Grindelwald non era particolarmente interessato a esercitare il proprio potere sugli altri. Più che il comando, gli interessa la possibilità di non avere limiti, di poter mettere alla prova le proprie capacità e la propria magia senza vincoli esterni, quali lo Statuto di segretezza.
Ecco perché non concepisce i valori di chi, come Aberforth, ritiene che la vera libertà risieda nell’assunzione cosciente delle proprie responsabilità; ecco perché risulta tanto convincente, promettendo la piena libertà a chi, come Queenie, si scontra con le fallacie delle regolamentazioni ministeriali.
La folla sempre più crescente che lo segue, l’ascendente che esercita su Clarence dipendono proprio dalla promessa che ciascuno possa seguire la propria natura e le proprie inclinazioni, rimanendo fedele solo a sé stesso. Il corollario della sottomissione dei Babbani risulta allora prettamente funzionale al piano di rivoluzione del mondo magico; i Babbani non sono peggiori dei Maghi, semplicemente non hanno per loro propria natura il diritto di costrizione su chi può tanto più di loro.
Grindelwald, in breve, ritiene dunque che sia logico che chi più può, più possa controllare il corso delle cose, senza considerare questo come una atrocità. Del resto, spesso tende a non commettere crudeltà gratuite: anzi si impegna a cercare un modo per sottrarre la Bacchetta di Sambuco a Mykew Gregorovitch senza ucciderlo, e decide di risparmiare la vita di Porpentina Goldstein . Gli attacchi terroristici al mondo babbano hanno lo scopo di minare i secolari piani di segretezza, più che di causare dolore ai no-Mag; la caccia all’Obscuriale, la condanna a morte di Tina e Newt mirano a eliminare ostacoli, non tanto alla vendetta o alla ricerca di una conferma del proprio potere.
Solo quando le “morti necessarie al progetto” cominciano a farsi sempre più numerose e sempre meno strettamente motivate Grindelwald sente il bisogno di una conferma della propria posizione, per cui interroga Krall sulla sua lealtà e sui principi della loro rivoluzione, quasi alla ricerca di una conferma di quello che finora ha professato. Rinforzato nel proprio credo, alla riunione dei suoi fanatici seguaci presso il Mausoleo Lestrange può dunque, in buona fede, rovesciare le carte in tavola: sono gli Auror gli spietati mostri assetati di vendetta e di sangue, che si ostinano a opporglisi.
Nel corso della sua scalata al potere, Grindelwald non viene mai meno ai suoi principi, né tende a punire gli errori dei suoi sodali (che chiama “fratelli”, “sorelle” o “amici”) come invece farà poi Voldemort; evita di far leva sulla paura, preferendo di gran lunga ribadire con vigore la forza dei suoi principi, per lui indiscutibilmente evidente.
Muta atteggiamento solo nei confronti di Silente, oscillando continuamente tra il timore del suo antico compagno e l’affetto e rispetto sinceri che continua a nutrire per lui, tanto da abbandonare il proprio algido autocontrollo, e lasciarsi andare a tremendi scoppi d’ira.
Tirando le somme, Grindelwald è sinceramente convinto che la sua soluzione sia l’unica che possa garantire una felice sopravvivenza a maghi e babbani; che impegnarsi per uno sviluppo della propria personalità e delle proprie doti sia l’unico dovere per i maghi; che le esigenze di chi rimane indietro non abbiano però lo stesso valore di chi riesce ad elevarsi sopra gli altri. Le morti e le distruzioni da lui commesse e ordinate hanno lo spirito giovane e incosciente dei rivoluzionari settecenteschi, che non esitano a sradicare legami e tradizioni, a uccidere e sterminare, in nome delle loro utopie. In questo, incarna il modello di un eterno adolescente, che osservando le iniquità della società adulta pretende di rovesciarla, considerando insignificanti i bisogni cui questa società risponde.
Ecco perché viene dimenticato: perché lui e le sue idee sono diventati vecchi. Il mondo è cambiato, la legge Rappaport (2) nel 1970 è stata cancellata; mondo magico e mondo babbano hanno stretto legami sempre più solidi; l’apartheid non è più un rischio per nessuna delle due comunità. Grindelwald non ha più senso di esistere, nemmeno come spauracchio. E infatti nessuno (salvo Albus) continua a temerne l’esistenza: è sufficiente dimenticarsi di lui.
E di questo rovesciamento di prospettive, di aver giocato la sua sfolgorante giovinezza e la sua carismatica maturità sulle carte sbagliate, Grindelwald è ben consapevole, dopo cinquantatré anni di solitaria prigionia. E forse questa consapevolezza gli arriva ben prima.
Che il tanto decantato duello con Silente, immortalato come evento epico e simbolico (e quindi svuotato di ogni significato immediatamente etico e politico), battaglia campale che suscita terrore e reverenza, si sia in realtà concluso come insinuato dalla Skeeter? “Forse bisognerà concludere che Grindelwald fece semplicemente sbucare un fazzoletto bianco dalla punta della bacchetta e si arrese!”(3).
Grindelwald potrebbe infatti aver capito di essere stato superato dai tempi, e che la sua visione è dunque condannata, come tutte le visioni potenti e sconfitte, al marchio dell’infamia. Potrebbe quindi aver compreso che anche ciò che di buono e grande soggiaceva alla sua utopia era in realtà viziato dalla mancanza di responsabilità verso i vincoli che costringono, ma definiscono la personalità di ognuno.
Si spiegherebbe allora come mai il vecchietto sdentato e rugoso, contorto nel suo isolamento, non restasse affatto sgomento dall’arrivo di Voldemort -almeno nei libri-, ma fosse certo che il Signore Oscuro non avrebbe mai potuto vincere: “ci sono così tante cose che non capisci…”(4). Si spiegherebbe anche il fatto che Grindelwald, così avvizzito, mostri in questo frangente la stessa spudorata allegria che lo aveva reso così irresistibile in gioventù, ridendo sprezzantemente in faccia al proprio assassino.
Bibliografia / sitografia
Harry Potter e i Doni della Morte, cap.35
https://www.potterpedia.it/?v=La_legge_Rappaport
Harry Potter e i Doni della Morte, cap. 2
- Harry Potter e i Doni della Morte, cap. 35
Commenti
Posta un commento